Valeria Fusi Cristini, mia madre, è nata a Milano nel 1928 ed è morta a Varese nel 2018.
Il suo sorriso era l’attitudine con cui guardava al mondo. Era un sorriso che accasava, ovvero trasmetteva agli altri la sicurezza e l’armonia derivate dal sentirsi a casa nel mondo. Il termine è usato da Byung-Chul Han in un suo saggio sul rito che sto leggendo in questi giorni, giusto dopo aver letto dello stesso autore un saggio sul dolore. Sostiene Han che la nostra cultura è caratterizzata da uno stato di anestesia permanente entro il quale siamo incapaci di provare felicità avendo rimosso il dolore, il suo contraltare atto ad impedire la reificazione della felicità stessa.
Ho pensato allora che la vita di mia madre, da quando ne ho memoria, è stata invece costantemente attraversata dalla malattia, pur se non particolarmente grave e invalidante: alla fine è vissuta a lungo. Mia madre soffriva di emicranie pressoché continue e l’esperienza del dolore scandiva la sua quotidianità, ma l’ho sempre vista sorridere come a trovare nello stato di fragilità del suo corpo l’origine di una forza interiore con cui si accasava e accasava. La sua forza si traduceva nella dolcezza della discrezione e nell’ intimo rispetto degli altri a cui guardava sempre in condizioni di ascolto. Aver rispetto degli altri è aver rispetto di sé e sorridere è la forma di questo rispetto.
Per questo mi ha insegnato molto e ha insegnato molto ai suoi due nipoti con cui ha saputo indugiare a lungo in un tempo in cui non si ha più tempo.
Nel suo sorriso c’era il tempo, tutto il tempo che serve, ed è per questo che ancora oggi, con gli occhi puntati nella memoria di lei, ci si sente a casa.
Ermanno Cristini
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