Anche mio nonno si chiamava Mario, lui però io l’ho conosciuto. Una delle cose che preferivo al mondo da bambina era svegliarmi con il suono della sua voce che arrivava dal soggiorno. Sapevo, allora, che dovevo precipitarmi giù dal letto, così potevamo andare a prendere mia cugina al piano di sopra e fare una delle nostre passeggiate. Io lo conoscevo così, come il nonno che ci portava in giro e aveva sempre un pacco di Brooklyn nel gilet, solo dopo ho scoperto che era stato un padre molto severo (anche a 18 anni mia madre doveva rientrare a casa per le 21.00) e che per stare con mia nonna aveva dovuto sfidare la volontà di entrambe le famiglie. “Lei è passata e mi ha fatto innamorare”, mi ricordo che diceva. Più di recente ho scoperto che è stato un immigrato dalla storia travagliata; prima al Nord Italia, poi in Germania, dove gli altri italiani lo chiamavano “terrone” e gli rubavano lo stipendio. Mi piace pensare che abbia avuto il suo lieto fine, con mia nonna i figli e le nipoti che lo adoravano, prima che un tumore se lo portasse via. Anche quando penso al giorno che se n’è andato, non ricordo mia mamma che piange in cucina, ma io mia sorella e le mie cugine che passiamo la giornata da sole (gli adulti erano impegnati) a prenderci cura le une delle altre e a pensare a lui, alle nostre passeggiate insieme, alla sua collezione di monete e di schede telefoniche e ai suoi amati film western.
Clelia Rainone
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